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La fotografia secondo Massimo Vicinanza

Abbiamo intervistato per voi il fotografo Massimo Vicinanza che ci ha parlato di sè e della sua passione per la fotografia.

amsterdam

Cosa ti ha spinto a intraprendere questa professione?

La mia prima fotocamera l’ho comprato nel 1980. Avevo vent’anni ed era una Olympus OM1 presa con i soldi guadagnati durante il servizio di leva in marina militare. Sono un ex capitano di lungo corso e per più di dieci anni ho navigato sulle navi mercantili scorrazzando in tutti i mari del mondo e facendo qualche scatto qua e là, ma sempre condizionato dal ritmo della vita di bordo. Verso la fine degli anni ’80 ho deciso di dedicarmi alla fotografia in maniera professionale. Insieme a due amici, anche loro appassionati di fotografia, costituimmo una società e attrezzammo una bella sala posa con un banco ottico Sinar, una fotocamera medio formato Mamya 6×7,  luci flash Bowens,  gli Autopole Manfrotto per i fondali… Si lavorava per le agenzie pubblicitarie, si faceva qualche ritratto e un po’ di architettura. Ma di lavoro ce n’era davvero poco, e quando le nostre strade professionali si divisero mi dedicai alla mia vecchia passione, il fotoreportage di viaggio e di architettura. Da allora propongo all’estero i miei servizi fotografici e poiché sono anche un giornalista li consegno completi di testo in inglese o in francese, a seconda delle necessità.

Quali sono gli elementi fondamentali per fare un buon reportage?

Per riuscire a raccontare una storia bisogna entrarci dentro, leggerla con gli occhi e sentirla con il cuore. Può sembrare una frase banale ma è così. E poi bisogna lavorare con una mentalità “analogica” e non digitale, immaginando, cioè, di avere a disposizione solo poche pellicole da 36 pose e non una o più SD da 64 giga. Perché quando si scatta a raffica con l’idea di selezionare dopo le foto migliori si perdere l’empatia con la storia che si vuol raccontare. Insomma, si corre il rischio di avere foto tecnicamente belle ma che non trasmettono emozione. Oltre poi al tempo sprecato al computer per scegliere le immagini buone…

Cosa ne pensi del fotoritocco?

È un procedimento che esisteva anche in camera oscura. Allora si agiva sulle temperature degli acidi, sull’agitazione della tank di sviluppo, sulla mascheratura della carta mentre era sotto la luce dell’ingranditore e fino al ritocco a spuntinatura fatto con pennelli e colori ad acqua. Oggi si usano i software che permettono interventi sicuramente molto più complessi e che sono parte integrante e imprescindibile del processo digitale. Dando per scontate la capacità tecnica a un livello professionale e la conoscenza del color management, è necessario avere buon gusto e, forse, a porsi dei limiti di modifica. Non mi riferisco, naturalmente, a chi usa la fotografia come linguaggio d’arte, che è tutt’altra storia.

Le tue cosiderazioni sulla mostra Kastellos e sul premio Giancarlo Siani.

Il primo è stato un viaggio in un mondo verso il quale siamo pieni di pregiudizi, quello dei Rom e dei Sinti. Con il mio reportage ho indagato in una realtà molto poco conosciuta e assai lontana da quella degli insediamenti a cui siamo abituati. Lì, in Romania, ho documentato i quartieri dei Rom ricchi che si sono sviluppati ai margini delle grandi città, sempre in una condizione di emarginazione ma fatti di ville sontuose e con un’architettura spontanea unica nel suo genere. Sono stato accolto e ospitato, ho conosciuto la loro storia, la struttura sociale e i principi morali comuni a tutti i Rom che incontriamo/evitiamo in ogni parte del mondo. È stata un’esperienza che mi ha aperto la mente e che mi ha profondamente arricchito. Il premio Siani è stato un premio collettivo dato ai fotogiornalisti napoletani come riconoscimento per il lavoro che svolgono quotidianamente sul campo e spesso in condizioni di alto rischio. In realtà ciò che faccio è un po’ diverso da quello che fanno gli altri fotoreporter premiati perché non mi occupo di cronaca, anche se e a volte faccio qualche inchiesta. Piuttosto racconto la geografia dei luoghi e la vita delle persone che li abitano, e attraverso la mia fotografia cerco di condividere con gli altri ciò che incontro lungo il mio percorso e durante la mia vita. Si è trattato comunque di un importante riconoscimento per il mio lavoro e ne sono stato felice.

Quali consigli ti senti di dare a chi vuole percorrere la tua stessa strada professionale?

Il mestiere del fotoreporter è molto cambiato. A causa della crisi negli ultimi due decenni i giornali hanno ridotto le pagine e tagliato le collaborazioni esterne, perciò è molto difficile vendere un servizio. Però è ancora possibile guadagnare distribuendo il materiale a riviste in tutto il mondo via web. Per farlo c’è bisogno di studiare il mercato che vogliamo “aggredire”, capire l’impostazione editoriale che hanno le pubblicazioni a cui proporremo i nostri servizi e inviare dei reportage su misura e in linea con il loro stile. Infine, se al servizio fotografico aggiungiamo anche un miniclip la vendita può essere più probabile, perché tutti i giornali hanno un’edizione online e sono sempre alla ricerca di contenuti multimediali di qualità.

Ringraziamo Massimo Vicinanza per l’intervista concessa a ProntoPro.


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